Sotto pelle – Studi di salvezza
a cura di Fabio Norcini
“Questa vita è corta, è scritto sulla pelle”, cantava il maledetto toscano Piero Ciampi individuando il destino che l’involucro umano rivela celando. La pelle può di volta in volta essere guardata come rivestimento di un interno ingannevole, come limite e finitezza: pelle che si cambia, che può ferirsi, che cicatrizza, avvizzisce o rifiorisce. Pelle come il titolo di un romanzo di Malaparte, ma anche come buccia da salvare costi quel che costi. Su questa superficie, anche se usa i più svariati materiali, l’arte di Tiziano Bonanni incide urticanti rappresentazioni, ma sa regalare pure carezzanti consolazioni. Operando nel “corpo” stesso della figura, non ha bisogno delle sfere simboliche, può aggiungere senza fine, affastellare grazie ad un sovrano controllo tecnico, le più svariate modalità espressive: scolpire, dipingere, disegnare, sconfinare nel ready-made e perfino nell’installazione. In questo potrebbe dirsi barocco, solo che l’attrazione per il non-finito gli si trasforma in aspirazione all’in-finito. Riesce quindi, in virtù di un innato senso classico, conferito da un DNA toscano pertinace, a rimanere antico. A tale proposito vanno citati maestri come l’architetto Pier Niccolò Berardi, conosciuto nella prima gioventù, o maghi del colore e del disegno quali Mario Calderai e Cecco Ceccherini, maestri che hanno trasmesso a Bonanni quell’arte del fare tipico della “bottega” rinascimentale. Fatto sta che il nostro ha sviluppato, assieme ad un amore che sconfina con il culto per la sua città e che gli fa vedere le facciate dei suoi palazzi e case quasi come fossero volti da sempre conosciuti, un senso del racconto figurativo, realistico e plastico, che percorre tutte le manifestazioni artistiche più vive, in una linea che, in tempi a noi più vicini, va da Viani all’astrattismo (non a caso) classico. Gli è quindi del tutto naturale farci credere al mito della creazione artistica, per la bellezza intrinseca di questo e non mediante razionali e arzigogolate persuasioni. In tale, credo, totalità della potenza artistica balza più evidente il parallelismo con la poetica malapartiana. Si potrebbe applicare al nostro artista quanto Luigi Baldacci acutamente notò riguardo la sperimentazione dei registri e il ventaglio di possibilità espressive dell’autore pratese: “A guardar meglio quel che appare d’antico nella prosa di Malaparte, è soprattutto inattuale rispetto a quel momento; ma l’inattualità di ieri può essere, con profitto, rivisitata oggi”.
A guardar meglio l’inattualità d’oggi del racconto figurale di Bonanni, potrà essere rivisitata domani. Questione sottocutanea, quindi, ma anche a fior di pelle: di vissuto, di desiderio e rimpianto, con il fardello di rughe e cicatrici che ciò implica. Da mettere in conto anche la pratica di arti marziali, nelle quali il Bonanni ha raggiunto notevoli traguardi, che gli ha insegnato soprattutto come ogni vittoria sia innanzitutto una sconfitta. Il che spiega anche certa ironia e autoironia, connaturate allo spirito di queste parti: in fondo l’uomo è anche Ness1 – Nessuno – come recita il titolo di una delle sue opere. Proprio dato che l’ossatura della sua opera risiede nel disegno, svuotato dai vezzi della maniera, il nostro può permettersi di demolire il posticcio e il finto e ritrovare la carne del reale: senza la presunzione di operare per l’attuale sempre e comunque dalla parte giusta ma, con Brecht, constatando che “dato che tutti gli altri posti erano già occupati, ci siamo seduti dalla parte del torto”. Senza quei contorti intellettualismi che giustificano tanta inutile produzione pseudoartistica “attuale”, facendo affidamento soltanto sulla poesia, quella che nasce esclusivamente dal dato còlto e rielaborato con mano felice, per restituire la vita com’è e non come si vorrebbe che fosse. “Si crede di lottare e di soffrire per la propria anima, ma in realtà si lotta e si soffre per la propria pelle”, anche solo inseguendo le chimere di una bellezza che si presume ancora praticabile. Impresa difficile, ma che può essere tentata, magari spalmandola sul tessuto di quell’epidermide sempre cangiante e infinita che è la pittura: l’arte è lunga, è scritto sulla pelle.
Firenze, 2014
“Opere, le sue, permeate da una dicotomia sentimentale che echeggia, chiara, soprattutto nelle figure femminili tenute a soggetto, al solito indagate oltre la loro affascinante apparenza in quei versanti interiori ai più sconosciuti ove si depositano le controverse scorie dell’esistenza”.
(Giovanni Faccenda, 2012)
“Dopo aver studiato a fondo i grandi Maestri fiorentini, pare avere assimilato da questi la tensione verso una pittura legata alle proprie qualità intrinseche, non trascurando un elemento di considerevole importanza, il disegno”.
(Miriam Giustizieri, 2009)
Border line
a cura di Nicola Micieli
Sorprende che una ricerca pittorica così serrata e conseguente nel suo sviluppo, così lucidamente mirata ai propri obiettivi stilistici e poetici e così provveduta quanto ai mezzi tecnici e linguistici messi in campo per raggiungerli, qual è quella di Tiziano Bonanni, non abbia trovato, sinora, riscontri critici d’un certo spessore e non risulti nota e giustamente apprezzata, nei suoi meriti, oltre una ristretta cerchia di amatori e conoscitori localizzati soprattutto in Toscana, la terra nativa della cui grande tradizione artistica l’ancor giovane pittore ha fatto tesoro, avendo però chiara la consapevolezza che si è tanto più prossimi al genius loci quanto più lo si interroga con l’apertura alle molteplici sollecitazioni della cultura e la sensibilità proprie del mondo contemporaneo. Ossia con l’incidenza critica e la sensibilità ansiosa, il senso di smarrimento e l’oscuro bisogno di ancoraggio a un nucleo di identità, insomma l’irrequietudine del nostro tempo. Un tempo che vive come in uno stato di deriva della ragione la caduta delle ideologie storiche e impone come modello democratico, sul piano planetario, l’ideologia a senso unico del mercato e dei consumi, arrogandosi, i dominanti più attrezzati di tecnologia (anche armata) e di risorse economiche, la “libertà” di governare processi di sviluppo che prevaricano e discriminano un mosaico di popoli e culture di antica e nobile civiltà. Popoli e culture i cui denominatori comuni sono la povertà e la preclusione assoluta della speranza nel futuro. È necessario ricordare che si sta parlando di una parte cospicua dell’umanità? […]
Tiziano Bonanni, difatti, può dirsi responsabile in prima persona del velario d’ombra dietro cui è germogliata, ed è cresciuta con un certo innegabile vigore, la severa pianta della sua pittura. Che non è una pittura estroversa e sciorinata in senso solare, né in qualche modo predisposta ad acchitare e sedurre lo sguardo esibendo, poniamo, una veste festiva dai colori sgargianti o cavando dal cappello magico un sorprendente repertorio di capricci, di ingegni, di invenzioni, di estri e di aberrazioni visive idonei a suscitare la meraviglia dello spettatore. Oppure una pittura che lo catturi e lo risucchi, lo sguardo, per la via obliqua e contorta della provocazione psicologica, affidandosi in modo proditorio e al limite truculento, al campionario dei diversi e non di rado correlati feticismi e mitemi che sono elementi costitutivi delle culture in senso antropologico, e mi sovviene che si tratta d’un materiale oggi sapientemente manipolato e dosato dalla schiera dei cosiddetti “creativi”, al servizio soprattutto dell’industria pubblicitaria: la natura, la macchina, il potere, l’eros, la guerra, il sangue, la morte e, insomma, qualsivoglia altro luogo simbolico che rimandi al territorio magmatico del profondo, e lo smuova facendo scattare nei riceventi meccanismi più o meno complicati e automatici.
La pittura di Tiziano Bonanni, al contrario, tende al ripiegamento e alla riflessione e presuppone un progetto esecutivo su una base concettuale. È una pittura pensata oltre che agita. Non a caso si fonda sulla funzione analitica e strutturale del disegno, che nel suo caso rimane lo strumento primario di indagine e il principio ordinatore dello spazio e della forma […] La pittura di Bonanni, anche nelle versioni otticamente più ferme e formalmente più compatte, ha bensì le sue febbri, le sue combustioni, i suoi turbamenti, le sue dinamiche di rispondenza interiore, le sue solarità radianti, le sue fioriture e “feste” cromatiche, le sue bizzarrie, le sue fughe nell’immaginario, le sue seduzioni erotiche, le sue latenze primordiali tra le quali, sottesa e diffusa, la pulsione all’annullamento, l’attrazione irresistibile – per quanto esorcizzata o sublimata – del vuoto e della morte: tema, questo, centrale e conflittuale, trattato sotto specie visiva come enfatizzazione delle figure entro il recinto artificioso dello spazio, che è sovente una gabbia, un box, una prigione, uno spazio-chiuso o comunque delimitato e resecato mediante ardite inquadrature di carattere fotografico, reso incombente da prospettive forzate o raccorciate e piani di intersezione o paratie che tagliano i corpi e ne tarpano i movimenti. […] Siffatte più o meno urgenti e consapevoli manifestazioni dell’essere sono bensì presenti e attive nelle opere, ma sono come schermate: si consumano, per così dire, sotto la pelle delle figure che abitano solitarie e pressoché sovrane la scatola scenica; ma bruciano senza crepitare e sprizzare scintille, senza accensioni e fragori pirotecnici, qua e là affiorando nei coloriti impuri, nei giochi chiaroscurali e nelle maculature delle epidermidi, nei turgori e nei rilasciamenti dei corpi ignudi, nelle estenuazioni delle posture.
Lo testimonia persino la frantumazione segmentata dei vestiti e dei panneggi, sovente utilizzati non tanto in omaggio alla tradizione accademica della pittura di nudo, quali complementi plastici e cromatici della messinscena, quanto sotto specie di vettori che raccolgono e diramano nelle diverse direzioni dello spazio i moti innescati dalla presenza non neutra, anzi perturbante, delle figure ancillari e virili. Le quali ben oltre il loro primato canonico, la loro centralità nell’ordine rappresentativo della pittura e quali luoghi ideali della misura, appaiono qui soprattutto entità corporali pervase di umori, suscitatrici di sensi e di tensioni alla dismisura rispetto allo spazio che le contiene, o forse meglio che le imprigiona. Sono dunque figure investite d’una funzione simbolica, un valore aggiunto peraltro non traducibile in specifici contenuti letterari. […] La ricca tipologia dell’immagine di Tiziano Bonanni è la risultante di un processo combinatorio le cui componenti discendono da contesti storici ed ambiti espressivi, insomma da fonti artistiche numerose e diverse. Bonanni le ha selezionate e ibridate in corso d’opera, dopo un lungo periodo formativo trascorso a sondare le possibilità di declinazione del linguaggio figurale, dalle puntuali ricognizioni analitiche su un vero oggettivato alle sommarie restituzioni d’un vero dilatato tanto, nelle sue tessiture, da apparire quasi destrutturato e al limite dell’informe. […]
Quanto alla matrice toscana, Tiziano Bonanni ha certo utilmente guardato i quattrocentisti ordinatori dello spazio visivo, i rigorosi architetti della forma cui presiede il divino disegno, appunto. Tuttavia, il suo interesse deve essersi concentrato sui manieristi di derivazione michelangiolesca, attratto in particolare dalla loro visione estenuata della linea e della forma, che mette in crisi la ratio ordinatrice e insinua nello spirito umano il sentimento, già moderno, del sommerso ove si agitano le forze oscure, l’irrazionale, il mistero. Siamo sulla scia del Beccafumi e del Pontormo, per intenderci, maestri in Bonanni evocabili per ragioni di clima espressivo, più che per espliciti riferimenti stilistici o anche solo indizi significativi. Un retroterra artistico e un contesto culturale di tutto rispetto, come si vede, quelli di Tiziano Bonanni. Davanti al lavoro da lui maturato con un lungo e tenace processo di selezione e approfondimento dei materiali e dei temi di volta in volta affrontati, e se si tiene conto di quel che fanno non gli artisti tout court, ma segnatamente i pittori della sua generazione, ribadisco la mia sorpresa di non trovare ancora assegnato a Tiziano Bonanni un posto rilevante nel panorama non asfittico della pittura d’immagine in Toscana, e parlo di immagine anziché genericamente di figurazione, per indicare un preciso versante della ricerca visiva che ci consegna, con la qualità formale ed estetica dell’opera, anche un documento – ma stavo per dire un referto – della temperatura esistenziale del nostro tempo.
La responsabilità della disattenzione, come accennavo, è in primo luogo a carico dell’artista medesimo: egli ha badato a lavorare dividendosi tra la ricerca nello studio e l’insegnamento, più che a mettersi in mostra nel circuito dei media e del mercato; si è preoccupato di mettere a fuoco e tradurre in sostanza figurale il proprio mondo di visione, più che di coltivare ovvero promuovere la propria immagine con adeguate strategie di marketing e di comunicazione. Sono scelte di fondo e omissioni, le sue, che si pagano con la scarsa visibilità, in un sistema che premia l’appariscenza, la rumorosità, la provocazione aggressiva, la presenza pervadente nel tam-tam mediatico. Non importa con quali opere, con quale spessore e durata. Nel sistema comunicativo attuale il messaggio, anzi, è pressoché un optional, poiché quel che conta è agire sul canale e sul codice. Quel che l’artista deve comunicare, insomma, è il proprio esserci come nome, come sigla, come agenzia creativa, non già la nota a margine, l’appendice, l’incidente in cui finisce col consistere l’opera. Ora, è appunto la persistenza e la centralità dell’opera il dato che impressiona quando visiti lo studio fiorentino di Tiziano Bonanni. Non intendo mistificare riandando alle pratiche e allo spirito delle antiche botteghe, ma è certo che di quei laboratori artistici lo studio di Bonanni ha conservato molti tratti. Nel senso propriamente del rapporto del pittore con l’opera, dalla scelta e dalla preparazione dei materiali all’ideazione e all’esecuzione. Non si simula anacronisticamente l’antico: si conduce con la probità e la sapienza degli antichi una ricerca d’immagine che veicola il desiderio di bellezza ma anche gli spasimi di un uomo del nostro tempo.
Firenze, 2004